domenica 9 agosto 2015

Contro Qwerty Uiopè

di Manfredi di Ratumemi


















Tu che gran boria e vana gloria spandi,
Rustico abitator di gioghi alpestri,
Ruvido più de Satiri silvestri,
E di laurea centaurea t'inghirlandi

Né a piè spondei, trochei, piccioli o grandi,
Né a favellare e a conversar t'addestri
E da zoticità non ti sequestri,
O tu che carmi da sentina scandi.

E taffanni e ti scanni, angosci e sudi
Che non mangi e ti frangi e ti trucidi
E il tesor del cor d'Inés diffidi

E di tua vita il fil sottil recidi.
Tasto tosto perché mai tilludi?
Se nasciamo e moriamo ignudi e crudi?



Sappia il lettore che Manfredi, per sovrano disprezzo, non ha versato una stilla del suo alato inchiostro in questa oltremodo cialtronesca e sconveniente controversia, sicché ha dettato codesto sonetto usando solo versi tratti dai Leporeambi 26, 40 e 84 di Ludovico Leporeo (1582-1655), gran poeta incline all'invettiva non meno che alle donne. Giusto per sfizio egli ha aggiunto al centone, qui e lì, qualche baffo à la Duchamp.

Ludovico Leporeo, Leporeambi, Edizioni Res, 1993

sabato 8 agosto 2015

Carme del mio carme

di Qwerty Uiopè
Venere amore e gelosia di Agnolo Bronzino (1503-1572)





















Dolce Inés perché sì cruda taci?
Sibben lafa tincalzi in bianco petto,
levami il duol, dissipa l sospetto,
rimemorando i nostri impervi baci.

Manfredi fu colui de soffi audaci?
Quel che val nulla mai al mio cospetto?
Quel leccapiedi e poetastro inetto?
Quel che confonde l'afa con le braci?

Quel cicisbeo di delir mendaci,
inviso a muse degne di rispetto,
di trame facitor vane e fallaci?

Dilla la verità mio bel visetto:
sdegnasi l'alma a quei motti mordaci,
ben sai ch’il mio valor è ritto e retto.




*Il titolo è una delicata invenzione di Franco Chirico

lunedì 3 agosto 2015

Se l'afa incalza

di Ines Ytrè



















Disse la dama in fiamme al cavalier:
«L'afa mi strugge, dentro la guêpière,
siate clemente, soffiatemi d'appresso
senza curarvi d'apparire fesso.
Pensate lieto a un zefiretto bello
o piamente al bue e all'asinello».

Il cicisbeo credè d'aver inteso
onde alitò sul décolleté proteso.
Del dolce affanno pur male gl'incolse
ché un brivido di fuoco lo percosse:
per la passion paonazzo e palpitante
laggiù sentì un turgor ohimè crescente.

«Oh maledetta e attillata calza
ch'al pubblico ludibrio ora mi sbalza.
Resto curvato per salvar decenza?
O fiero sfido pur la maldicenza?
S'alcun poi sospettasse del mio onore
Simular dovrei un provvido malore?»

«Oh cavalier d'incendi domatore
celate forse del soffiar lo scotto?
Pur quel mio foco era ben altro ardore
che spenge sol il vento del bel trotto,
non blando fiato del vostro nasino,

incipriato e amabile c.»