lunedì 25 agosto 2014

Romilde

Accadde un dì nevoso e malinconico che un ambasciatore venne alla corte di sua maestà Ansoaldo, amato nostro re grande e possente. Splendeva già nel cielo e in ogni dove la luce della sua immensa gloria e la sua nobile fama inconcussa correva di valle in valle, valicando i laghi, i fiumi e perfino i ruscelli. La mente e il cuore dei suoi orgogliosi sudditi erano satolli del portento d’un re tanto adorato, così eran sempre pronti a celebrare tanto custode, consapevoli ch’egli era uomo davvero smisurato e forse dio, certamente da divina schiatta discendente e senza dubbio alcuno destinato ad ascendere nel Walhalla, si capisce, il più tardi possibile.
Parlare delle virtù di re Ansoaldo sarebbe compito gravoso per chiunque; perfino lo stagirita, è da credere, penerebbe, ché i suoi costumi esuberavano dalla norma più eccellente della moralità del mondo. Oltre ogni segno liberale benigno e magnifico, smisuratamente temperante, per non dire dell’impetuosissimo coraggio di mente e di spada. Per nulla mai il suo popolo ebbe da levar querimonie o lamenti o rimostranze. E nondimeno, una certa inquietudine serpeggiava da qualche tempo a causa della regina Romilde che esitava a moltiplicare il nobile sovrano, benché da molte lune si fosse consumato l’imeneo.
Tra i sudditi si sospettava ignavia o inettitudine o qualche perniciosa infermità da parte della regale consorte. Perfino i dignitari più prossimi giunsero, con estrema discrezione, si capisce, a chiedere se il re fosse felice, se le nozze avessero reso più liete le sue ore, massime quelle notturne, si spinse a domandare il più impertinente. Ma il re rassicurò tutti benignamente e profuse le opportune lodi per la sua Romilde amata, congedò quell’udienza tradendo invero un certo qual fastidio.
Romilde, donna di crin corvino e frondoso e occhi lucenti, altera e di perlacea pelle, aveva un corpo flessuoso e bellissimo e superbo, tanto che poteva essere solo invidiata o imitata ma giammai superata per grazia e fascino. La sua inarrivabile venustà però, nonché scatenare alla sua vista galanterie rispettose ed altre più celate e turgide illusioni per nulla commendevoli, recava del pari un turbamento d’altronde inesplicabile, nutrito tuttavia come dall’inquietudine d’una perfezione non votata del tutto agli immutabili decreti della natura e della tradizione.
Giunse dunque l’ambasciatore e con lui un corteo assai folto di famili e soldati per seguito acconcio. Furono alloggiati soddisfacentemente gli altri e con decoro e dignità il legato, ch’era uomo giovane e biondo, raffinato ma di tratto assai deciso, e come uso da lunga pezza a stare sopra i molti.
Ignoti erano i temi della sua missione, né annuncio era giunto per tempo a corte; noto, si fa per dire, era solo il committente: un re lontano d’ignota fama e di un inusitato regno, sua maestà Desiderio re di Edonesia.
Benché dunque inattesi, agli ospiti fu usata ogni cortesia onde immantinente re Ansoaldo inviò uno dei suoi dignitari presso l’ambasciatore per recare il suo saluto e l’invito per il banchetto della sera imminente che avrebbe celebrato l’amicizia dei due popoli nel modo più conveniente. Gradiva re Ansoaldo conoscere il nome dell’ambasciatore, chiese il dignitario prima del commiato.
— Dite al vostro augusto reggitore ch’io sono Azzone di Galeazzo, principe di Talamo, duca di Copula, barone di Cunno, conte di Crapula, Collare d’oro dell’Ordine della Verga, nonché marchese del Baldacchino, Grande Nerchia del Regno, Pari di Lancia, Nastro Fiorito della Pompa, cavalier di Renidiferro, da ultimo insignito della suprema onorificenza di Fecondator Optimus nel concistoro della Granmazza.
Così concluse con gusto e gravità l’ambasciatore orgoglioso di enumerare i suoi titoli molteplici e prestigiosi. Solo che il dignitario di Ansoaldo ascoltava con fremiti crescenti e irrefrenabili quell’elenco tanto inverecondo e sconveniente per il suo pio sentire. Superato il primo sbigottimento proruppe pertanto un po’ alterato.
— Monsignore, sappiate ch’io sono il primo dignitario del regno, non l’ultimo maniscalco di cui senza tema ci si possa fare beffe. I vostri nomi sono ambigui, empi e tralignano nell’osceno, affatto irripetibili al cospetto del nostro re santissimo e morigerato. Vi invito a recuperare tosto il sentimento onde conferir con me come s’addice a un gentiluomo, dismettendo i panni del furfante. Suvvia fuori i vostri nomi buoni e veraci, bando al ciarpame genitalizio, limitatevi senz’altro alle voci gentilizie, se nel caso ne vantate.
— Come? Solo il mio ufficio momentaneo di legato vi risparmia da una sicura e dolorosa morte di stocco o di brando. Come osate discutere i miei titoli e la mia dignità e il mio onore? Ciarpame? Sappiate bellimbusto e borioso baciapile che nel mio regno essi al solo annuncio suscitano riverenza e pur terrore e ossequio. Sappiate che decine di avi della mia stirpe gloriosa hanno sostenuto ogni cimento e impresa, sempre a spada tratta, per meritare la corona araldica dei nomi, titoli ed onori del mio nobile casato. Vi vieto pertanto di condurre oltre un siffatto ignobile vilipendio, se volete evitare durissime pene. Tacete, vergamolle d’un marrano pederasta. Tacete e recate al vostro re le mie sublimi e ferrigne credenziali. D’altronde congedatevi prima di subito da me, prima cioè che la furia di Azzone prevalga sui doveri di cortesia del suo ufficio di legato.
Dinanzi al furore davvero incontenibile di Azzone, vacillò prima nel dubbio e poi nello spavento vero e proprio il già tracotante dignitario di Ansoaldo, conte Turibaldo. Egli dapprima pensò di replicare duramente, ma quando s’avvide che il legato aveva davvero portato la mano allo stocco, girò i tacchi e rinviò ad un momento più propizio la vindice difesa del suo onore offeso.
Come le nubi veloci di primavera svariano precipiti nel cielo fino a lasciare l’azzurro terso e immacolato, senz’altro, in un battito di ciglia, così si rinfrancò di colpo l’umore furioso di Azzone, il quale ancor prima che il conte Turibaldo varcasse l’uscio in precipitosa fuga, già rideva a squarciagola tributando alla sua codardia una scia rumorosa d’irrisione sferzante. Turibaldo, non poté non sentire, solo che il supremo dovere di mettere in salvo la sua vita, già peraltro consacrata al suo re, sopì i morsi per le ferite della sua dignità di dignitario.

Corse, sbuffò, si stropicciò lungo il tragitto che lo riportava a palazzo, dove, giunto trafelato, si precipitò dal Gran Ciambellano che era in sua attesa.
— Congiura! Infamia! Complotto! Una grave minaccia, esordì Turibaldo, ci è penetrata in seno. L’ambasciatore! L’ambasciatore! Quale pericolo! Quale scandalo!
— Che accadde? Calmatevi, riferite senza esclamazioni, come volete che capisca? Dite quel che passò con chiarezza, cos’è quest’agitazione? Avete condotto dunque la vostra missione?
— Certo che sì, barone Arialdo, certo che sì. Ed essa è la cagione della mia inquietudine e della mia agitazione. Quell’uomo è un furfante, un facinoroso, un malandrino. Dobbiamo alzare alte mura a usbergo del malcostume ch’egli reca e spande.
— Conte Turibaldo, mettete un freno alle vostre emozioni, volete o no farmi rapporto dettagliato? Ditemi i fatti, allora. Tanto più se v’è rischio e minaccia. Basta coi farfugliamenti, parlate adunque, disse spazientito e al limite dell’ira Arialdo.
Non fu impresa semplice ricostruire l’episodio della missione del conte Turibaldo, il quale raccontava, chiosava, interpolava, s’infuriava, crepitava di propositi, s’indignava, fingeva congetture, si offriva come sicario, compitava manuali di morale, citava i padri della chiesa, discettava di ogni dettaglio irrilevante, gorgogliava di esegesi sottilissime e infine tornava a offrirsi come mandatario dell’omicidio indispensabile del prepotente e obliquo ambasciatore.
Arialdo talora con la carota e più spesso con il bastone, interrogò, rimproverò, schiarì, ricostruì, e infine, con gran fatica, stabilì l’accaduto.
— In effetto v’è da meditare. Se non che il tempo è breve, il banchetto non si può rinviare, dobbiamo giungere con celerità ad una deliberazione almeno provvisoria, osservò gravemente il Gran Ciambellano.
Fu urgentemente adunato un consiglio segretissimo per attingere alla sapienza geografica, alla scienza medica e alle incontrovertibili verità teologiche e morali, ogni argomento acconcio a discernere alla bisogna del caso che occorreva: trivio e quadrivio furono pertanto convocati e consultati con attento e diligente scrupolo. Eppure non si pervenne a pervie e concordi conclusioni.
L’arcivescovo Pudibondo, tra formule dissimulate ed evocazioni esaltate, suggerì di avvelenare il legato prima del banchetto: «vengo con la spada», ripeteva dalle sacre scritture. Altri proponevano di passare a fil di giavellotto l’empio infedele, appena avesse rivendicato al cospetto di Ansoaldo gl’immondi titoli riferiti da Turiboldo. Malgrado l’ardore divampasse in quel consesso talché il simposio sembrò trasformarsi in un certame di assassini di fervida immaginazione, tuttavia Arialdo ammonì i presenti e ordinò a tutti di mordere il freno, poiché gli pareva più fondato e utile condursi secondo il consulto saggio e moderato del nobile Geodato.
Orbene, opinava Geodato, il massimo geografo del regno, che il mondo è vasto e vari sono i costumi, del tutto lecitamente convenzionali i titoli e le lingue e le parole invero, fuor dall'orecchio del re, si capisce.

Mentre Azzone trafficava furiosamente tra gemiti e sospiri nel suo giaciglio divenuto un’ara di piacere, sentì all’uscio un rapido trapestio, indi, preceduto e seguito da un fruscio, un tonfo leggero, onde si riscosse e guardò calmo la fessura della porta. Per terra v’era un piego, in effetti. Discese dal talamo infuocato e lo raccolse. Il piego era giallo con una vasta ferita di ceralacca ancor madida recante un sigillo stellato che circoscriveva una A, nettamente incisa. Aprì e lesse.
«Arialdo, il gran ciambellano, Azzone saluta.
Eccellente ambasciatore, anzitutto, porgo le scuse per la riprovevole condotta del conte Turibaldo che cedendo alla sua impertinente curiosaggine valicò per vanità le prescritte regole reali della sua missione.
Ebbene, vengo a informarvi che con rescritto regio duodecimo emanato sin dal primo anno di regno, sua maestà stabilì il tassativo divieto d’usare nelle pubbliche adunanze titoli e nomi propri da parte dei convenuti d’ogni rango. È inutile che si dia conto delle alte cagioni d’un siffatto decreto, tanto è palmare ch’esso s’ispira a chiarissimi principi di giustizia, talché coloro che sono ammessi al desco di sua Maestà son tutti parimenti suoi sudditi, ciò che supera senz’altro ogni altro onore, sopendo ab imis ogni tronfiaggine per ulteriori disdicevoli distinzioni personali.
In fatto e in diritto ogni titolo nobiliare deriva sustanzialmente dalla regalità, al cui cospetto, pur non cessando, si può ben dir che si sospenda, tornando ogni dignità alla grazia del largitore.
Del resto gli attributi son predicati d’una sola sostanza che li emana e li possiede. Ergo innanzi al re si torna ignudi di nomi propri e titoli, mettendo conto declinare solo l’ufficio che si esercita, ossia la propria funzione iscritta nel provvidenziale disegno regale.
Tanto si doveva, affinché nulla abbia a turbare la vostra missione, nel rispetto dei nostri costumi e delle nostre leggi, sicché or prendo congedo fiducioso nel vostro acuminato acume, per nulla acusmatico, ma anzi matematico».

Rise e sorrise, Azzone. Poi tornò nel letto e strinse a sé con nuovo vigore l'ombrosa e lucente Romilde.