venerdì 28 febbraio 2014

Samira e i satiri

Frammento podalico de Il sogno delle nuvole e il croco,
post del sedici settembre duemilatredici

«Quale desiderio di sentirla, carissimo. Volevo in realtà venirla a trovare. Ma gli impegni, sa? rubo questa breve pausa al lavoro e telefono all'amico carissimo, mi son detto, altrimenti per un motivo o per l'altro, finisco per mettere sempre tempo in mezzo e di giorno in giorno arriviamo alla fine dei giorni.» Che metafora ardita, che puntualità criminale. Ma come, proprio ora? per dio sdrucito e spettinato. Niente. Prima il timbro, ora il molestatore al telefono, in questa orrenda galera non si può nemmeno sognare.
«Ma che voce grossa e impastata, stava dormendo? Scherzo. So bene che lei è fin troppo serio.»
«Mi dica, mi dica. C'è qualche problema urgente per il quale posso esserle utile?»
«Ma no, ma no, è per il puro piacere di sentirla, nessun problema.»
Ma guarda un po', "per il puro piacere di sentirla", e io che pensavo che c’entrasse solo il sadismo gratuito?
«Puro piacere.»
Ma non ti coglie il dubbio che il tuo puro piacere per me sia un tedio, una calamità, un tifone, un martirio, un buco nero di paranoia, un farmaco letale, un’acuminata cuspide che mi atterra e mi ferisce?
«Certo avrei gradito che mi chiamasse lei, eh fa il prezioso, dimentica gli amici, mai una telefonata. Da quanto tempo non mi viene a trovare? Aspetti, glie lo dico io. Sì, ora ricordo quella magnifica conversazione sull'arte dell'uncinetto nella quale eccelle mia moglie. Eh ricordo ancora distintamente l'acutezza delle sue osservazioni, il suo desiderio invero di tagliare la corda, beninteso perché altri impegni l'attendevano, ma pur nella fretta, le sue osservazioni illuminanti, in capo a due ore di discussione, mi hanno dischiuso un universo del tutto nuovo sulle magnifiche virtù praticate magistralmente da mia moglie.»
Si ricordo, eccome. Eccome. Il trauma inestinguibile di quella tortura infinita mi ha marchiato indelebilmente. A causa del centrino così delicato e bello e sublime, fui costretto
 a dettare e compitare in una sola discussione spaventosi tomi immaginari: Il Trattato di tombolo comparato, L'estetica del punto a giorno, La fenomenologia della catenella. San Sebastiano martire mi sia testimone del ricordo preciso, dettagliato e inestinguibile di quell'umiliazione sorda, inflittami per penitenza di tutti i miei abominevoli peccati. Sto ancora a tentar di lenire le piaghe abrase riportate da quella indimenticabile conversazione.
«Ma sa gli impegni.»
Ancora piango solo a pensare al rischio corso di finire tumulato vivo nel tombolo, io che amo la nuda terra o almeno gli aerei colombari. Anche perché dopo la teoria pura, non fu possibile evitare l’indagine meticolosa dei riflessi psicologici e sentimentali della nobile arte donnesca, onde altri agghiaccianti tomi furono delirati: Va dove ti porta il pizzo, Seta, Via con la catenella. E le mani preziose della sua cara moglie. E l’ingiustizia di giudicare arte minore quei pregevoli manufatti. E che cos'era la Gioconda a confronto dell’ultimo centrino floreale arabescato, che la perversa consorte aveva copiato da Tuttuncinetto. La vivezza delle foglioline, la fantasmagoria del rabesco, il rutilante piumaggio, la sapienza della catenella a contrappunto. E poi l’intuizione lirica del traforato, la perizia simbolica dei putti collocati in angiolesca postura di benvenuto agli angoli estremi. E le bifore e le trifore. Il verde acqua che sfumava nell’écru guarnito di nastrini violetti, anzi d’un più delicato viola pallido, anzi pallidino.
«Un violino», abbozzai disperatamente per ridere. Ma lui non se ne intese per nulla e ancor più convinto e come posseduto in uno stordimento ottuso che coglie di fronte ad una rivelazione che mondi possa aprire, ribadì serissimo: «Proprio così, è la parola giusta, ben detto, è proprio un violino.»
Cominciai a dubitare sul valore dei saggi, dei filosofi, dei santi nonché della mia stessa mente. Non la Prima, né la Seconda, né la Terza Critica avrebbe dovuto scrivere Immanuel Kant. Infatti. Quale inestimabile servizio all'umanità egli avrebbe reso se piuttosto avesse scritto una sola e semplice, benefica e definitiva Critica della Ragion Dura?
L’interesse del seccatore al telefono però non era affatto quello di celebrare l’indimenticabile simposio uncinettesco, perché tendeva a tagliar corto, contro le sue più note abitudini di rallentare ogni movimento, pertinacemente incline a fare ristagnare ogni passaggio, fino a rendere vischioso ogni contatto con il mondo esterno.
Eh no. Aveva dell’altro in mente. Solo che bisognava capire il giro lungo ed estenuante dell’approccio che la sua sadica mente aveva istintivamente prescelto, per provare a ridurre i tempi di avvicinamento ed entrare nel merito di ciò che voleva sapere, così da cavarsi il dente e poterlo congedare.
«Che strano tempo, ha notato? Pioggia, nuvole, lampi e saette. L’altra notte, mi alzo per andare a urinare e d’improvviso m’investe la folgore.»
« Il bagliore?»
«Ma sì, certo il bagliore. Che strana sensazione. Mi sembrò di non avere più palpebre. Che vita di sofferenze per quell'essere che non avesse palpebre. Costretto a vedere tutto quello che gli accade intorno, senza mai il riposo del buio e della notte. Benché, talvolta la notte sia tutt'altro che un riposo grato. Eh sì la notte è proprio inquietante, talvolta.»
Oh sì. Ma certo, ho capito. Ha fatto un brutto sogno e vuole raccontarmelo. Oh no, il sogno no, ti prego. Anche la tua balbuzie onirica, i peti incoscienti, le polluzioni di una torpida mente che già di giorno farnetica. Non sono la cloaca dei tuoi miserabili e sgangherati e sibilanti effluvi interiori. Come puoi immaginare che il mio tempo sia tanto inutile da poterlo straziare con le tue ributtanti metafore.
«Vede io non sogno mai, o forse non ricordo i miei sogni, e così dormo bene, riposo in pace.»
E quando riposerai in pace con definitivo e cosmico sollievo dell'umanità?
«Beh sì, capita a tutti: qualche volta si sogna, qualche volta non si sogna. Niente di male»
«Per niente! Caro amico lei non può nemmeno immaginare il sogno spaventoso che mi ha sconvolto l’altra notte.»
Così, dopo questo temibile esordio, quale roboante tuono che annuncia un temporale inevitabile, rotto ogni indugio, cominciò inesorabilmente il racconto torrenziale del suo spaventoso sogno dell’altra notte.
Già ateo, ma infine non del tutto indisponibile ad accettare l’esistenza di dèi minori e meno esagerati, di fronte alla letale minaccia che incombeva sul mio capo, m’indussi a coinvolgere nella più blasfema negazione di ogni verità ed esistenza tali mie residue credenze divine. Per l’ira di ritrovarmi le orecchie stracolme delle trame incongrue e dei simulacri sciocchi partoriti dal mostro all’altro capo del telefono, giunsi a concludere che se proprio qualche suina divinità fosse sopravvissuta alla mia condanna, certo era momentaneamente scappata negli intermundi elisi della boscosa regione del
Waffanculo. Il racconto, in una parola, si fa per dire, fu completato in quarantasette minuti di fitto parlare e di afflitto ascoltare.
Eccone un rapido resoconto. Era una giornata di sole a picco sulla vita e sulla morte. Non si distingueva più nulla nella canicola fiammeggiante di lingue di luce. Nel cuore di questa atmosfera sospesa e immobile il sognatore si trova perduto e immemore in un luogo sconosciuto, così, preso dallo sconforto e da un torpore invincibile, cade in un sonno profondo. «Mi addormentai senz'altro, più della paura poté l’abbraccio di Morfeo», chiosò compiaciuto. Indi poiché l’abbraccio ahimè non fu mortale, cominciò a sognare. Ora egli saliva per una ripida e solitaria stradina «con ciglioni aguzzi e ferrigni», finché come dal nulla gli si staglia innanzi «un gran tocco di femmina».
«Bella, bona. Ma proprio bona e mezza nuda». E certo sul ciglio della strada chi vuoi trovare, sesquipedale cretino, beghine che recitano il rosario?
«Altro che via agra, quella era la rampa del paradiso.» Alla semplice vista «quasi non potei più camminare», per le note difficoltà di deambulazione dei tripodi: «Che durlindana chiodata, amico!», ghignava. Dopo un'indispensabile digressione sul suo penoso difetto erettile dovuto ad iperspadismo asinino tale da costringere al suicidio qualunque rivale e finanche il quadrupede più prestante, racconta che rigonfio di tanto marmoreo bene si appropinquò alla fanciulla «desnuda». Più si avvicinava, lentamente si capisce, più gli si squadernavano le sublimi grazie muliebri della giovane venere discinta. Senza alcuna esitazione, al colmo di un’eccitazione parossistica, decise di sedurla a tutti i costi. Per attaccare bottone velocemente, allora, cambiò passo, prese l’andatura spedita e disinvolta del passante. Raggiunta la donna sul ciglio della strada, con consumata virtù di satiro sciupafemmine, dopo averle rivolto uno strabuzzato e dolcissimo sguardo assassino, le domanda: «Come ti chiami?».
Ebbene sì. Proprio così. Un approccio palesemente irresistibile, un abbordaggio degno del più rapace seduttore, l’unghiata mortale di un predatore invincibile. Pare che non siano seguite dispute teologiche particolarmente memorabili, perché subito si passò ai fatti con efferata e disinibita concretezza.
«Due globi da orbi, amico mio, ma che dico? un altare imbandito di grazie celesti. Tutta la sua via della vita divenne la pista delle mie scorribande suggenti, e le due nuvole sue errabonde, e il croco dei suoi capezzoli». Tali prolegomeni orali e salivari furono seguiti da plurime e furiose copule di una durata incerta tra qualche minuto e l’eternità, interpretate nelle più acrobatiche posture e secondo ritmi bensì alternati, ondulati, tambureggiati, a martello, ma sempre concluse secondo il tempo solenne e marziale dell’esordio della Quinta di Beethoven: «Ta ta ta taaa», puntualizzava il satiresco e orrido tenore.
«Samira fu dolce e appassionata, insaziabile e sottomessa, aprì un solco di vertigine nel mio animo. Sembrava che il suo desiderio fosse sempre ricominciato, cosi nutriva il mio desiderio che nutriva il suo desiderio che nutriva il mio desiderio».
Oh no. Samira. Come può questo mostro stuprare l’unico mio raggio di luce diurno e notturno?
Samira. Samira. Samira. Fuoco dei miei lombi, sale e miele delle mie ferite, luce e tenebra della mia vita, iridescente volto di ogni primavera.
No, Samira, no! L'orrore del tradimento mi divora. Ma poi. Poi.
«Penso agli uri e agli angeli, al segreto dei pigmenti duraturi, ai sonetti profetici, al rifugio dell'arte. E questa è la sola immortalità che tu e io possiamo condividere», mia Samira. E dunque solo l'amara benda insanguinata di Humbert Humbert, infine, ci resta.